16-7-2003
Mole Antonelliana

Museo del Cinema di Torino
24 giugno-30 settembre 2003


La dolce vita (1959) di Federico Fellini è un film epocale. In esso sono racchiuse non solo le problematiche, la vitalità e i contrasti della società italiana in una fase di profonda trasformazione, ma in quelle nitide immagini troviamo anche gli aspetti riguardanti la nozione di modernità del cinema, oltre alle questioni inerenti all’eclissi del sacro, o a quelle dell’affermazione dell’industria culturale, della centralità del divismo nella società della comunicazione, della moda e dei nuovi stili di vita affermatisi con la Hollywood sul Tevere, con la città di Roma divenuta il centro del mondo.

La dolce vita ricevette la consacrazione internazionale con l’assegnazione della Palma d’oro al Festival di Cannes nel 1960, dalla giuria presieduta dallo scrittore Georges Simenon; ma qualche mese prima fu oggetto, in occasione dell’uscita sugli schermi italiani, di una durissima polemica.

L’idea di una mostra su La dolce vita ha preso spunto dalla attenta osservazione dei 167 scatti di scena di Pierluigi Praturlon conservati presso la Fototeca della Scuola Nazionale di Cinema, solo in minima parte utilizzati nel volume La dolce vita: scandalo a Roma, Palma d’oro a Cannes, realizzato dalla Scuola Nazionale di Cinema per onorare il decennale della scomparsa di Federico Fellini. All’interno del meticoloso lavoro svolto da Praturlon, occhio esterno fra i tanti occhi presenti nel film, abbiamo scelto per la mostra una ipotesi di percorso imperniata su quattro corpi: Anita Ekberg, Marcello Mastroianni, Federico Fellini e la Mole Antonelliana dove si trova il Museo del Cinema.

Partiamo dal primo: Anita Ekberg. Come si ricorderà Anita Ekberg, che nel film interpreta il ruolo di Sylvia, una diva del cinema, entra in scena mentre il film di Fellini strutturalmente comincia a decollare verso quella forma epica che lo contraddistingue. Il regista ha utilizzato i primi venti dei totali centottanta minuti per articolare solidamente la premessa, da quel momento entra in scena Sylvia, che per la successiva mezz’ora esatta non abbandona la scena. La parte di Sylvia è suddivisa in sette scene principali, alle quali vanno aggiunte altre due scene di raccordo in automobile (la prima, breve, nel corteo dall’aeroporto verso la città; la seconda lievemente più lunga, con Sylvia e Marcello su una decappottabile prima di arrivare al centro di Roma).
Il corpo centrale della mostra è basato proprio su queste sette scene. Nella prima vediamo Sylvia scendere dall’aereo, come avveniva di frequente in quegli anni a Roma. Successivamente vediamo Sylvia impegnata a rispondere alle curiosità dei giornalisti nel corso di una conferenza stampa. Nella scena successiva l’attrice, inguainata in un vestito nero e con in testa un largo cappello ecclesiastico, viene accompagnata da Marcello a San Pietro: percorre le scale che la portano all’estremità della cupola con divertita energia, e finalmente ammira estasiata la piazza.
In seguito la vediamo avvinghiata a Marcello in un ballo lento, sulle note di Arrivederci Roma; ma eccola un attimo dopo ballare divertita prima al ritmo di un cha cha cha, e poi, seguendo il “molleggiato” Adriano Celentano scatenarsi con il rock and roll. Lasciata la sala, a causa del brusco alterco con il fidanzato Robert (l’attore Lex Barker), sempre in compagnia di Marcello, nella scena successiva vediamo Sylvia nella Roma notturna, prima con un gattino in testa e poi attratta dalla meraviglia di Fontana di Trevi, per il bagno più famoso della storia del cinema. Infine, al primo chiarore dell’alba, il ritorno a via Veneto, e il sonoro schiaffo assestatole dal fidanzato prima di ritirarsi. Praturlon non ha mai abbandonato quel corpo di Anita così debordante.
Lo ha colto nella sua raggiante bellezza, nel suo insolito e conturbante fascino nordico. Lo ha ripreso attentamente, sicuro che quel corpo avrebbe determinato, così come è accaduto, la vera attrazione di un film di per sé già sin troppo innovativo.
Il secondo corpo messo a fuoco dalla mostra è quello di Marcello, il protagonista, l’eroe. Il mondo prende forma nelle sembianza di Marcello Rubini, giornalista disincantato, che in realtà, oltre ad essere l’eroe, è anche uno spettatore, l’incarnazione della vitalità individualista e della forza prorompente della giovinezza.

Il terzo corpo è quello dell’autore, Federico Fellini. Con quel film grandioso toccò praticamente il vertice di creatività, notorietà e successo. Se Roberto Rossellini, che andò a far visita sul set all’amico, aveva portato il cinema italiano nel mondo con il neorealismo, Fellini chiudeva una stagione e ne apriva un’altra: per certi ancora più sfavillante e luminosa.
Infine il quarto ed ultimo corpo è rappresentato dal Museo, la Mole Antonelliana. Il Museo, che contiene l’intero corpo del film di Fellini, dalla prima immagine dorata del Cristo Lavoratore nei cieli di Roma, sospeso in elicottero, all’ultima, con il mostro marino pescato all’alba, Il Museo è uno spazio radicalmente diverso, ad esempio, dal tempio della postmodernità museologica, il Guggenheim di Bilbao, ideato nel 1997 dall’architetto Frank O. Gehry.
Il Guggenheim è l’innesto stupefacente di un’idea multinazionale dell’estetizzazione della merce, nelle rovine della modernità industriale europea. Un palazzo saettante, scintillante, dove si riflettono le acque limacciose del Nervión e dove sbatte implacabile il vento atlantico, incastonato in un agglomerato di rovine, retaggio della declinante modernità industriale, fatta di fabbriche, acciaierie, edifici e altiforni ormai in disuso. In questa moderna cattedrale dell’arte internazionale, edificata nei Paesi Baschi, dunque nel cuore di una delle più resistenti ed orgogliose isole dell’identità della vecchia Europa, si celebra l’american way of life della museologia multinazionale contemporanea.

Il Museo del Cinema di Torino rappresenta invece l’opposto. E’ il geniale recupero, ideato dall’architetto François Confino, di un monumento dalla fortissima valenza per l’identità nazionale, senza il bisogno di passare per le levigate edificazioni dell’architettura postmoderna. Quel corpo così massiccio e genialmente svettante verso il cielo che è la Mole Antonelliana, Confino lo ha riempito con una grande storia: quella del cinema, invenzione europea avvenuta nel crepuscolo del XIX secolo. E dell’arte europea di esprimersi attraverso le immagini nel XX secolo Federico Fellini è stato uno dei massimi ingegni, come il misterioso fascino de La dolce vita, nella celluloide o nelle foto di scena, continua instancabilmente a dimostrare.


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